domenica 23 giugno 2019

L'amarcord della Stagista Stagionata - Visita al Museo della Follia

Entrate, ma non cercate un percorso. L'unica via è lo smarrimento.
(rassicurante invito ad entrare al Museo)

Era scritto che ci andassi: il Museo si trova proprio dietro l'ufficio informazioni, ed è anche una delle attrazioni per cui si vendono direttamente i biglietti. Inoltre, mi dicono, come dipendenti - ma anche stagisti - dell'ufficio, possiamo entrare gratuitamente.

Il problema è che si tratta di una tematica che non mi lascia affatto indifferente, non ho mai veramente chiarito con me stessa se sono matta o no, e se non lo sono cosa sono, ed esplorare questi meandri del museo e della mia anima ho sempre paura che mi faccia star male. Così rimando, a volte mi dico che non sono certo costretta a vederlo, a volte sono curiosa, poi sono pigra, poi soltanto ho paura. Ed arrivo al penultimo giorno di stage, un venerdì 17, oltretutto. O lo faccio oggi o lo faccio domani, e domani è sabato e ci sarà troppa gente. E finalmente mi decido.

Finito il turno, invece di dirigermi verso il parcheggio, vado verso il Museo, la Cavallerizza, si chiama. Era, credo, un'antica scuderia appena dentro le Mura, recentemente restaurata e predisposta per eventi di vario genere, come il Museo, che, a dispetto del nome, è in realtà una mostra itinerante che resterà a Lucca fino a circa metà agosto. Si tratta di un ampio spazio, molto luminoso, che per l'occasione è stato trasformato in una serie di corridoi e stanzette semibuie, grazie a pannelli rivestiti in tessuto nero.

Vengo accolta dal buio, e da un orologio che ticchetta un tempo inesorabile, quasi insostenibile da ascoltare, e in quella stanza mi fermo a leggere una scritta luminosa e vacillante, tratta dalle memorie di Alda Merini. Mi addentro nel Museo (non ho usato a caso la parola meandri poco fa!) e mi perdo tra quadri e ricordi e oggetti inquietanti. Sospeso da fili, in una sala c'è un'enorme scultura di legno, simile a un trapano. Solo quando vedo lo stesso oggetto a misura naturale, molto più piccolo, capisco che cos'è e la rivelazione mi atterrisce quasi. Serve ad aprire forzatamente la bocca, è praticamente uno strumento di tortura camuffato malamente da equipaggiamento medico. Divento poi la pallina invisibile di un gigantesco biliardino, in cui ogni omino nasconde un ricordo bruciato e polveroso.
Vengo attratta da un corridoio incredibilmente illuminato e mi ritrovo in una stanza tutta pannelli bianchi, lattiginosi, con le foto scolorite e deturpate di decine di pazienti. È troppo, voglio uscire, voglio l'aria aperta, ma per arrivare all'uscita devo passare davanti ad altre camere, numerate, che si aprono come incubi. In una entro addirittura, seguendo l'invito a chiudermi la porta dietro. Mi ritrovo in un bugigattolo di pochissmi metri, dove non potrei mai stare distesa, a fissare quello che doveva essere l'interno della porta di una cella. Mi volto ed esco, incespicando sul gradino, trovo l'uscita e dico al bigliettaio: "Avrò gli incubi per settimane, ma è stato bello" e dicevo il vero.


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